Ha senso nel 2023 investire in un’infrastruttura fossile che minaccia il clima e la pace?

Del progetto EastMed, il gasdotto che dovrebbe trasportare in Europa le riserve di gas del Mediterraneo orientale, si vagheggia da più di dieci anni, fin dai tempi delle prime importanti scoperte di giacimenti nell’area (a cominciare da quelle targate ENI). Il progetto prevede circa 1.900 chilometri di tubi sottomarini da Israele alla Grecia, con una profondità che in alcuni tratti raggiungerebbe addirittura i 3 mila metri, per collegarsi poi al tratto offshore del gasdotto Poseidon (altri 210 chilometri) dalla Grecia all’Italia (Otranto). Assieme le due condutture costituirebbero una mega infrastruttura fossile, promossa dall’italiana Edison (controllata dalla francese EDF) e dalla greca DEPA, unite nella joint venture IGI Poseidon. Con il sostegno di Roma e Bruxelles.

Infrastrutture energetiche strategiche?

La Commissione UE ha inserito i gasdotti EastMed e Poseidon nell’elenco delle infrastrutture energetiche strategiche dell’Unione sin dalla prima edizione della lista “Progetti di Interesse Comune” (PCI) del 2013. Nonostante il nuovo regolamento europeo escluda i progetti connessi alle fonti fossili dalla PCI list, le due opere sono lo stesso in corsa per entrare nella nuova lista: il tratto EastMed grazie a una deroga per Cipro, il tratto Poseidon perché si presenta come infrastruttura per l’idrogeno anche se inizialmente verrà utilizzato per il gas. I progetti inclusi nella lista PCI possono beneficiare di finanziamenti UE (Bruxelles, infatti, ha già finanziato uno studio di fattibilità per l’EastMed). La decisione finale sul gasdotto ha continuato a slittare per i dubbi sulla sua sostenibilità ambientale ed economica (con costi stimati tra i 5-7 miliardi di euro), ma la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina ha riportato in auge il progetto.

Un progetto a tutto gas, su spinta di ENI

L’EastMed sarà una infrastruttura fossile, almeno nella prima fase, poi si ipotizza una sua conversione ad idrogeno. Ma ha senso investire nel 2023 in una infrastruttura fossile? La risposta è senza ombra di dubbio no. La comunità scientifica non ha alcun dubbio sul fatto che, se vogliamo salvarci, dobbiamo smettere di utilizzare i combustibili fossili. Gli scenari redatti dall’IPCC sono chiari: il picco delle emissioni deve essere raggiunto entro il 2025 e successivamente si deve puntare ad una rapida decarbonizzazione. E invece, cosa fa l’industria fossile con il beneplacito delle istituzioni europee? Decide di costruire un gasdotto capace di trasportare 10 miliardi di metri cubi di gas fossile all’anno al mercato europeo, con una possibile estensione a 20 miliardi di metri cubi all’anno in una fase successiva. Tra le aziende coinvolte nelle esplorazioni nel bacino del Mediterraneo orientale, per estrarre il gas che dovrebbe essere trasportato dall’infrastruttura, ci sono Chevron Corporation, ExxonMobil, TotalEnergies e l’italiana ENI, che spinge per trasformare il nostro Paese in un hub del gas europeo anche attraverso progetti come l’EastMed-Poseidon. Peccato però che il progetto di ENI di fare del nostro Paese un hub del gas significherà senza dubbio violare l’accordo di Parigi, rallentare la transizione energetica e vincolarci ulteriormente ad un combustibile inquinante.

I possibili impatti ambientali e climatici

Il problema di una pipeline che trasporta gas è legato anche alle fuoriuscite di sostanze inquinanti (emissioni fuggitive), che hanno un impatto sul clima ottanta volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. Usare, ma anche trasportare gas è, quindi, un crimine nei confronti dell’ambiente. L’etichetta verde di questa infrastruttura è legata al fatto che sarà (forse) convertita per trasportare idrogeno, ma dipende dal tipo di idrogeno utilizzato: l’unico veramente green è quello prodotto da fonti rinnovabili e a poca distanza dall’utilizzatore finale. Identificare, quindi, l’EastMed come infrastruttura per l’idrogeno rischia di essere solo una operazione di greenwashing per promuovere una infrastruttura voluta dalle compagnie fossili.

Continuare a promuovere l’uso di un pericoloso gas serra come il metano ovviamente causerà impatti indiretti anche sugli ecosistemi del Mediterraneo, un mare chiuso le cui temperature stanno raggiungendo livelli mai visti con conseguenze già evidenti: sparizione di specie autoctone, invasione di specie aliene, fenomeni di necrosi, sbiancamento e altro su vari organismi dei fondali. A questo naturalmente va aggiunto l’impatto di ulteriori infrastrutture da piazzare sul fondale in aree profonde che sono sempre state classificate come un deserto ma che invece sempre più oggi sono considerate di grande importanza anche, ad esempio, per i processi di assorbimento della CO2 nei sedimenti marini. Che questi fondali poi non siano affatto un deserto lo conferma, tra l’altro, la definizione di Ecologically or Biologically Significant Areas (EBSA) attribuita a varie aree del Mediterraneo lungo il tracciato EastMed-Poseidon.

I rischi geopolitici e per la pace

Il progetto EastMed non rappresenta solo una micidiale minaccia per l’ambiente e la crisi climatica, ma anche per la pace. La regione, infatti, è caratterizzata da conflitti mai sopiti come quello tra Turchia e Grecia – sulla questione Cipro, ma non solo – e da innumerevoli controversie territoriali e marittime. L’attuale corsa all’estrazione di petrolio e gas offshore ha reso ancora più tese le relazioni tra gli Stati rivieraschi e in alcuni casi è stato sfiorato lo scontro armato, arrivando al dispiegamento di mezzi militari. Non è un caso che quasi tutti gli Stati che si affacciano nell’area hanno aumentato le spese militari, con la Grecia che ha quasi raddoppiato il suo budget per la difesa dal 2014 a oggi. Poiché il tracciato della sezione greco-cipriota dell’EastMed attraverserebbe zone marittime contese da Ankara – esclusa dal progetto – il rischio di un’escalation è molto alto.

La posizione del nostro governo

Nonostante tutte queste problematiche, l’Italia si è dimostrata subito interessata al progetto. Nel 2017 l’allora ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha siglato una dichiarazione congiunta con i colleghi di Grecia, Cipro e Israele a favore del progetto, mentre nel 2020 Roma è entrata nell’East Mediterranean Gas Forum, assieme a Cipro, Egitto, Francia, Grecia, Giordania e Palestina. Nell’aprile 2022, il governo Draghi ha dato un mezzo ok al progetto, dichiarando che, “al netto delle criticità di carattere politico ed economico, il progetto EastMed si porrebbe in linea con la nostra strategia di diversificazione delle rotte del gas, con la nostra azione di rafforzamento verso i Paesi già fornitori e con l’idea di fare dell’Italia un vero hub europeo dell’energia, valorizzando il bacino mediterraneo e, in particolare, la sua sponda meridionale”. Al momento alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati sono in discussione due risoluzioni per rilanciare il progetto EastMed, presentate dai partiti di maggioranza (una dalla Lega, la seconda da Fratelli d’Italia). Sempre senza alcun riferimento ai danni climatici e geopolitici. È questa la ricetta del Governo italiano per garantire la nostra “sicurezza” energetica?